Sul diamante di Di Maggio
Da una famiglia di pescatori un giocatore di successo. Così un figlio di emigrati ha conquistato la gloria nello sport più americano, il baseball. Ora è coach: “Ma andrò in pensione a Ischia”.
di Riccardo Luna (da ‘La Repubblica’ del 16 novembre 1988)
«Quando mi chiedono perché tanti italo-americani hanno sfondato nel baseball non posso fare a meno di pensare a Joe Di Maggio. Lui era importante come il presidente degli Stati Uniti; lo vedevo giocare e mi dicevo: diavolo, un italiano come me, così in alto. Allora ho pensato che avrei potuto tentare nel baseball anch’ io, anche se Di Maggio restava un mito irraggiungibile». Joe Amalfitano ce l’ ha fatta: da Ischia, terra del padre, a Los Angeles, dove ha vinto le World Series di baseball (una sorta di mondiale), battendo i campioni uscenti di New York, il sogno americano del coach dei Dodgers è una favola a lieto fine, tutta da sentire.
Francesco Amalfitano era un pescatore abbastanza povero da capire che ad Ischia non aveva futuro e abbastanza coraggioso da intraprendere il grande viaggio in America. Negli Usa sbarca proprio agli inizi della grande depressione degli anni Trenta. A San Pedro, il porto di Los Angeles, le cose si mettono subito meglio. Francesco si sposa con una ragazza di Ischia e in breve diviene proprietario di un peschereccio. Una mattina del 1934 è un giorno speciale: nasce Joe e papà Francesco pesca qualcosa come 24 tonnellate di tonno. Ottimo auspicio. Joe-Giovanni cresce in un quartiere italiano («eravamo sei o sette famiglie unite come un clan») e trascorre l’ adolescenza sui banchi delle scuole cattoliche. Era un buon studente, ma anche un buon sportivo: l’ atletica, il basket, il football e, naturalmente, il baseball. «Avevo dodici anni – racconta – e come tutti i pomeriggi ascoltavo una partita alla radio. Ad un certo punto dissi a mia madre anch’ io sarò un giocatore di baseball e sentirai il nostro nome alla radio. Lei scosse la testa, ma non lo dimenticò mai».
Joe vince una borsa di studio per uno dei migliori college americani, il Loyola. Due anni dopo firma il primo contratto da professionista. Siamo nel 1954. «Ero minorenne e per la firma andai a chiamare il papà in mezzo al mare. Lui tornò a riva ancora con gli abiti da lavoro. Firmò, brindammo e quando fummo soli mi chiese quanto avrei guadagnato. Trentacinquemila dollari, risposi e lui sorrise. L’ America – disse – è proprio un diavolo di paese. Da San Pedro a New York il passo è lungo. Mi guardavo intorno ed ero sbalordito confuso. Non capivo. E non capii neppure quando la mia squadra, i Giants, vinse le World Series su Cleveland. Mi sembrò tutto troppo facile. Avrei dovuto aspettare trentaquattro anni giocando a Minneapolis, Dallas, Toronto, San Francisco, Houston e Chicago per tornare a vincere le World Series, le mie World Series. Le World Series negli Stati Uniti sono come il campionato del mondo di calcio da noi. Il baseball è nato e cresciuto con l’ America e i bambini da noi iniziano subito a colpire una palla con un manico di scopa. Da adulti si gioca con i figli. Così lo sport si tramanda all’ infinito. Il giocatore di baseball è il ruolo più ambito nella vita dai giovani, dopo quello di presidente degli Usa, o di senatore. Da voi il baseball è ancora giovane, non ha nemmeno cinquant’ anni. Dovete avere pazienza. A Cuba è diverso. Loro hanno un talento straordinario e si allenano moltissimo. E poi il presidente Castro ama il baseball. Agli ultimi mondiali in Italia una nostra squadra è stata sconfitta dai cubani. Ma erano dilettanti. Mi ha bruciato non tanto perchè a batterci erano dei comunisti, quanto che siamo stati sconfitti nel nostro gioco».
A livello di squadra di club è comunque un’ altra storia. «Il baseball professionistico è un’ industria del divertimento con partite in tivù tutti i giorni della settimana e stipendi medi di oltre mezzo miliardo l’ anno. Se i soldi dicessero sempre la verità, questo significherebbe che siamo in presenza di una generazione di campionissimi. Non so se sia vero. Certo questi giovani strapagati, adulati e con troppo tempo libero il loro prezzo lo stanno già pagando. La droga per noi è un problema serissimo che solo ora stiamo affrontando con un inasprimento delle pene a carico del giocatore».
Parla da vincitore Amalfitano, eppure solo sei anni fa era out, finito, licenziato dalla squadra di Chicago dove faceva il manager: «Una mattina ti chiamano e ti dicono “good bye”. E sei fuori». Ma ad ottobre, dieci giorni prima delle nozze con Key, il presidente dei Dodgers lo chiama: «Vieni a lavorare per noi, puoi tornare a vivere a San Pedro e allenare la nostra squadra. E’ stato l’ anno più bello della mia vita, con mia mamma che stava in tribuna durante le finali e che ancora oggi mi telefona per dirmi quello che devo fare. Siamo italiani, uniti come un clan. E in Italia, a Ischia voglio tornare quando mi ritirerò».
Los Angeles Dodgers 1988 World Series Champions
Giocatori: 3 Steve Sax, 5 Mike Marshall, 7 Alfredo Griffin, 9 Mickey Hatcher, 10 Dave Anderson, 12 Danny Heep, 14 Mike Scioscia, 17 Rick Dempsey, 21 Tracy Woodson, 22 Franklin Stubbs, 23 Kirk Gibson, 26 Alejandro Peña, 29 Ricky Horton, 30 John Tudor, 31 John Shelby, 33 Jeff Hamilton, 37 Mike Davis, 38 José González, 47 Jesse Orosco, 49 Tim Belcher, 50 Jay Howell, 51 Brian Holton, 54 Tim Leary, 55 Orel Hershiser.
Manager: 2 Tommy Lasorda. Coaches: 8 Joey Amalfitano, 11 Manny Mota, 13 Joe Ferguson, 16 Ron Perranoski, 18 Bill Russell, 35 Ben Hines, 58 Mark Cresse